4 ottobre 2015
Sonata
Due bestiole
si presentano,
che
graziose, che portamento,
che quiete
sentir il fermento muto,
l'incanto,
il canto tuo, è così sublime
(e sei col
libro chiuso).
Sembra quasi
la musica
non si
percepisca,
solo un
lontano bagliore tonale,
è un'arpa
rinascimentale,
un inciso
spirituale.
Il risveglio
fischiettante dei folletti,
con gli
intenti furbetti,
dolce fiaba
emo,
tra Selene
fremo,
Eos avanza,
che temperanza,
la giostra
gira cara ragazza
nel carillon
protetta,
cardigan,
sia benedetta
la tua faccetta.
In punta di
piedi
tra viali
scoscesi
saliamo i
gradini,
sfidiamo gli
altarini vicini
vicini,
scansiamo il nemico
e facciam
l'occhiolino
e tu danzi
avvinghiata
a te stessa
sotto le stelle,
dio mio che
splendore!
L'acconciatura
francese
ti sfiora la
palpebra distratta,
allora
oscilli trottolina vorticosa
e scomposta,
dionisiacamente
risorta.
Ciclo
naturale
e
metempsicosi corporale,
batto i tre
quarti,
figura
perfetta e stellata
da
musichetta pitagorica,
le etalage
di turno
congiunte in
Saturno
hanno la
luna storta
e contorta.
Il meridiano
divide il limone
in
atteggiamento sospetto,
in dolce
compagnia sul letto
aspro e
strisciante,
la corda
pizzica ancora
come
formaggio l'asola.
E c'è una
festa in piazza,
si sente
dalla terrazza,
più altera
va la ragazza.
La spola fan
tre o quattro
appostati
sotto il palco autunnale,
il vento
soffia,
l'amplificatore,
la spina, le cuffie,
il motore.
E poi gli
stralci,
sonetti o
minuetti,
il maestro
si sbatacchia,
poi vede la
ragazza,
non è
distrazione
ma entrar
nel vivo della questione.
La musica
infatti avanza,
avvitamenti,
piroette
maledette,
odore di
fumo, sbuffa la pipa
all'inverso.
Siamo ancora
all'inizio,
ne
passeranno di ponti
sott'acqua,
archi romani sprofondati
e corrosi
dal flusso,
il maestro
spettinato
indossa il
cirro stonato,
copricapo
lodato, disimparato,
frastornato
e sciupato.
Vai in re
minore,
te lo
aspetti,
non sei
dodecafonico,
allora
l'orchestra sbadiglia,
pastarella e
amarena stanca,
vorrebbe
inchinarsi per sopirsi,
il pubblico
bivacca,
divora le
note indigeste,
scucite e
scandite
dal
ticchettio di novena ripiena.
Eccolo,
entra in
scena,
proprio
mancava, l'assicurato
impresario
che lancia in aria
i tre
danari, mette da parte
e investe i
talenti
ad uso
contadinello ottuso
ed imbevuto
di pesticida laureato,
di sandalo
arricchito e deluso.
La ragazza
sonata si ribella
alla
disfatta, gambe all'aria,
è tutta
fatta,
affonderà
col transatlantico,
vicino mio
dio,
l'incubo
mio,
tra le fauci
del coccodrillo
riversa
sincera la chimera
e le
partiture, tutte le arsure
e le
violette infine.
Mi alzo dal
letto al frastuono,
il
pragmatismo ha svilito il suono
docile e contemplativo,
l'anima e lo
spirito si ribellano
ad un corpo
che non vuole piegarsi
ad essere
semplice contenitore
e strumento
dell'una e dell'altro.
E scorgo
lontano,
la vista
aguzzo,
dicevo
scorgo un lamento
materializzato
di un mondo eclissato,
un mondo
lontano e ovattato.
Poi uno
scalpitio,
il
mendicante ritratto,
armato di
bastone,
nell'incedere
distrae.
Folle,
folle,
folle il
venditore,
freme,
freme,
freme la
bancarella,
fruga,
fruga,
fruga sotto
il suo velo.
Il nostro
cuore è l'ultimo rumore,
il vento
ancora più forte respira affannato,
mi hai già
dimenticato? Ma dai,
eri colà
poco fa.
Che cosa
diresti al mio posto,
fischietti e
mi ignori,
padrona
dell'oblio notturno.
Cambio di
scena repentino,
la ragazza
mi riabbraccia,
cade in trance,
cade in
estasi mistica,
in un attimo
è trafitta dal dardo d'amore,
il
fanciullino alato ha di nuovo vinto
e perverso è
il seguito...
Va tra le
note di nuovo,
godi la
musical vitalità,
vai
spogliati,
leva le
lineette nere,
bianco il
foglio dipingiamo
ed
annotiamo.
Che carina
la mantellina
incrinata
sul ruscello,
mi guardi
fissa e risplendi,
mi copri il
labbro e la tua bocca sfiora
la mia
fronte, la mente in refrigerio.
|
8 settembre 2015
Alma incantatrice
Il mio cuore
innanzi geme,
sorge una
stella nel tramonto.
Alma
serafica
sorgente
pura del mio
spirito,
dentro me
sospiri
e
candidamente scosti l’aria,
che
movimento puro,
che
disincanto sospeso,
che pensiero
disilluso
amor mio,
la vita non
ci dona
la candida
rosa,
la scorgiamo
solo da lontano
come emblema
del nostro
cuore.
Il sapore
del vento.
E ticchettio
mio dove sei?
Amore livido
e seducente,
dove sei mia
attrice,
lunare
effige plastica,
ciondolo
siriano al collo,
mio speciale
barlume lieve,
tu dispetto
buffo,
paonazza e
bronzina gioia,
goccia
vespertina,
acrilico
scardinato
ma
possentemente intriso,
musica dolce
nelle vene,
sole
notturno e gelido,
melodia
stampata indelebile
sul vetro.
Sorge una
stella nel tramonto,
ti amo credo
e te lo dico
senza perifrasi,
tanto è come
staccare un fiore
ed
annusarlo, lo sai che preferisco
contemplarlo
e immaginarne l’odore,
ma stasera
sento un tepore
che dai
polsi mi invade la schiena,
scende a
perpendicolo
e mi scuote
il capo,
ti prego,
vieni qui con me,
sogniamo
insieme nella radura,
so che ci
sei,
so che
verrai,
se sei
mancata a tante albe
non potrai
dimenticarti di me
proprio ora
che riscende la notte,
sì so che
verrai,
sarai qui
appoggiata
alla mia
nuca,
noi di
spalle
gli un
gl’altri
a guardare
il cielo
e poi
chiudendo gli occhi
a
raccogliere l’attimo profondamente,
trattenerlo
e non perderlo più,
per sempre
insieme.
Per sempre!
Sorge una
stella nell’aurora,
senza di te
la rimiro e penso,
dove sei ora
ormai non lo so,
né che fai,
tempio
d’Egitto
e
principessa della progenie
arcadica
saggia e caprina!
Sorge una
stella a metà notte,
vago in
speranze lontane
con te
distante, mi volto e piango,
tu non ci
sei,
sono
assordato da questo silenzio!
Sorge una
stella non so dove
ed alzo le
mani,
saluto e
scanso le foglie caduche ,
ti attendo e
mi asciugo gli occhi.
Tu intanto
presente e apparente,
guerriera
prima,
amazzone,
eco lontano
rimbomba tra
le stalagmiti,
odore di
fumo e tamerici.
Nostra dama
sull’orchestra,
oscura e
funesta
l’attesa
dei tuoi
occhi,
solo per
rimirarli,
pragmatizzare
nella realtà fuggevole ed avversa
il mio
eterno sogno tutto nuovo
e dipinto.
La gabbia
dei sinceri addii
che tristi
rotano lì intorno,
la fiamma
dei cabalistici ulivi.
Follia e
Dionisio,
vivi nelle
vene
e nella
scure,
amore
bazzicante.
Sento la
forza arcana,
la potenza
ancestrale,
la violetta
scismatica ragazza.
E poi
l’incanto dei pensieri,
scuri dal
sapore lieve.
Vocetta,
dici a tua
volta,
il maestrale
nostrano
non è la
furia scandinava
dei tuoi
servili temporali,
succubi
domani deleteri.
Sei stupenda
scandita
dalle percussioni,
sbellicata
dagli archi
e dai mesti
sultani
che si
inchinano
e che
fremono al tuo giacere
assisa in
firmamento.
Io sono qua,
l’alba
dell’età,
l’anima del
sagrato,
l’ombra del
segreto.
E non ho le
seducenti mani
a tempo sul
ripiano,
sgomito
nell’altopiano,
banalizzo i
sentori
dell’incauto
oltraggio.
Sei di
sbieco senza fiato,
sei svilita
e xilofonata,
spiega e
metti in piega,
subisci pure
gli odori.
Sento un po’
la pioggia
e non ho
quel gomito carnale,
quell’archibugio
astrale,
quel
rimpianto sconfitto,
quel petto
trafitto.
Lezioso piatto
imbandito
non è
eclissi il sole nero,
l’atomo ultimo
del vero.
Ti ricordi
ancora,
ho lacrime
d’assenzio,
germoglia lo
smeraldo,
travalico i
monti,
ti guardo
negli occhi,
la mia testa
sul tuo pallido petto,
rosa
ebenacea sul mento
e cuore in
fermento.
Oh godo alla
vista della luna,
oh godi al
verbo incarnato,
trasfigurata
effige catara,
provenzale
sonata,
tubinghese
teologia,
atavica
pazzia,
orda
indoeuropea stanziale,
vitello
d’oro,
taurino
messaggio,
belante
miraggio,
allucinato istante
bendato.
tu,
specchio,
valvola
trascendente,
tasto
d’avorio,
scala in si
minore,
giro
ossessivo,
armonica
compulsione strumentale
e la testa
sotto il cuscino.
Tu,
tu già lo
sai,
sulla sponda
del molo
sfoglierai
la luna,
oh frastuono
di miele,
oh onda
spumeggiante
e lastrico
di schiena bianca,
tondo
violetto,
clavicembalo
alato.
Starei con
te
guancia a
guancia a fissare
impietriti
il mistero,
e arriva il
do,
ho voglia
delle tue labbra,
mentre
sussurri
nel mio
rimpianto onirico.
Oh, i tuoi
capelli sul mio petto!
E non hai
l’ortica istigatrice
sul ventre,
continui.
Sarà il
nostro segreto
l’aurora,
vaneggi
mentre protendi
il tuo dito
serrante
sulle mie
labbra.
L’albero
esplode,
è ciò che mi
preme
divorare la
sapienza del bene
e del male,
la contemplo
e non oso
per pudore
e folle
bramo ancora
vigore nei giardini,
sono tuoi
gli altarini
miei e tu
altera
sogno mio
sogno mio
impossibile
e tu tanto
vera,
tanto
carina,
tanto
profonda,
tanto
carnale,
tanto a
portata di mano,
tanto dolce,
tanto
splendida,
stella del
tramonto,
luce
dell’aurora,
sussurro
dell’eterno.
Ascendo tra
le foglie,
sono
superba,
strafai.
Astri
estrosi
incrociano i
nostri sguardi
mentre li
orchestriamo,
accordiamo
le falle,
nessuno può
fermare
il nostro
palpito furioso,
mai,
la tua veste
candida
verde sotto
assedio
giglio,
mistero di
vetro è questo,
cristalli
condensati nel tempo
e rimessi al
vento,
rimessi al
senso,
assi e travi
urbane
a sostegno
dei giorni,
paonazza
sei, ragazza,
affronta i
ridenti,
angosciosi
fermenti,
lividi
inospitali
sul polso
violato,
docile
riporto,
matematico
sfregio naturale,
vasta
alleanza sui binari
dalla fiamma
antica.
Bacchetti la
corda
con forza
tra le nubi,
vai mia
piccina instancabile,
continua a
suonare,
le carte le
puoi giocare tranquilla,
sono
paziente,
squarcia il
velo orientale
dell’illusione,
e sorgi luna
in luogo del
sole,
ridona la
potenza
alle selve,
riaddenta la
mela,
volgi lo
sguardo alla luce,
alla
ortensia
alla viola
ricordo,
un lieve
sentore
sobbalzerà
in te,
serva e
padrona d’assoluto,
maestra e
scolaretta,
demone
angelico.
Astri
estrosi
ruotano
intorno
mentre
scriviamo,
il piano
stonato,
la vita
nostra sintomatica
svilisce il
potere superbo,
sorge per
sempre
il bagliore
pallido,
nell’abbraccio
possente
fondiamo e
creiamo
staticamente
la sostanza.
E di notte
lontana tu,
tutto
finisce,
tutto
inizia.
Avessi fiato
parlerei di te,
avessi voce,
abilità, scrittura,
parlerei di
te,
avessi senno
scriverei di
te,
l’intelletto
mio sulla luna
e rabbia
cieca
nell’impotenza
della realtà
avversa.
Magari in
barca
parlerei
solfeggiando
il golfo
costeggiato
ed ingolfato
veicolo
stellare,
la sabbia
che sporcò la stiva,
vestigio
umano
del ricordo,
padroneggi
con rispetto
il mio
timone alla deriva
naufrago,
nocetta
buffa,
vocetta
candida e serpentina
cassi le mie
casse
con rinvio,
formale l’errore
illogico il
dolore,
manifesto
marxista infondato.
Accendi la
siga e tiri sorridendo,
il tuo fumo
appanna i miei
occhi
portali,
in sogno
portuali
appigli
sepolti
e sepolcri,
spogli nichilisti
da canarini
che tu sai,
sbottoni la
camicia in trance,
meditazione
ondulata,
e già!
Dagli un
nome a ogni creatura,
va be’
questo proprio no,
il suono
fonetico deriva
dall’onomatopea,
fumetto
primordiale e astrale,
studi la
parola e allora
perché
babeli ancora?
Il gruppo
clanico
cambia forma
non sostanza
né apparenza,
vedi
l’allitterazione
tra suono
naturale
e pronuncia
umana vocale,
costante
consonante,
impronunciabile
e sonante,
il nome di
dio lo puoi intuire,
e la disfatta
mia evidente.
Un altro
paio di tiri
perché me ne
lascerai due,
già lo so,
mi offendo
così però,
contrasti la
trinità,
la verità
non è duale
o manichea,
ma unica
perché il
dispari alla lunga
fa unità,
l’infinito è
un otto capovolto
(direi tosto
disteso e sognante),
pari ma
impari
dunque
impuro,
cadi in
contraddizione,
accendiamo
un bel falò
e ammettiamo
l’inesistenza
del pari
allora.
Piangi ma
che fai?,
ti disperi,
in realtà mi
accorgo
fingi e poni
il piede sinistro
in avanti
il destro
ben saldo
e dai fiato
al fumo:
esiste tutto
quanto,
il pari in
realtà
è disparico
in disparte
quindi
dispari se si completa,
dunque il
pari è parte
del dispari
risultante
e di
conseguenza l’infinito
finito
incompleto.
Ohibò!
Quotidiana,
essere
divino e tanto quotidiano
e familiare,
seppur
lontano,
lontano
evanescente dolore spento
rosa
dischiusa in silenzio,
dolce
effusione
mentre fissi
la tela.
Vorrei
scrivere effluvi,
vorrei
partecipare al simposio
tracimando
lo spirito.
Sognami.
Sognami.
Sognami.
Quel canto
elevato mi scuote.
Granelli
tanti
quanto i
giorni in giovinezza.
I segni del
tempo
sul volto
cedono
alla potenza
del bello.
Le palpebre
sbattono al vento,
portoni di
cortine incartocciate,
sbadate e
sincere
mentre
studio i tuoi sguardi
di sbieco,
tu assisa
sul bordo
della fonte
centrale.
Ragazza
guardami ancora,
sono nel
punto genealogico
delle realtà
oniriche,
ditirambica,
filippica,
estrosa e
sofista.
Tu,
prediletta dai numi,
il mio fiato
è per te,
io frollerei
solo
per un tuo
fugace accenno,
uniti,
indelebili,
te lo
ridico, sei la voce
che da corpo
ai miei pensieri,
la tua
essenza mi guida
solingo con
verga e lanterna,
ed io non
posso tradirti
o
abbandonarti, non voglio.
Sussurri
come brezza d’inverno,
la tua voce
non copre il gemito,
ecco il mio
cuore!
La mia anima!
Il mio
spirito!
Il mio corpo!
Materializzati
allora
dolce
eterea,
la tua voce
intensifica il suono,
diviene
strumento essa stessa,
e allora
destreggi purità e sorridi.
L’incubo mio
si raddolcisce
in un
istante,
l’eremo tra
la vivida
vegetazione,
l’ermo
domani.
Imbellito il
vascello
dei
pensieri,
l’ultimo eco
è risuonato,
dardi di
fuoco in campi di spine,
non diamo
spazio abbastanza
all’incanto
del dominio
senza armi e
armature,
con egide
dagli occhi gorgonici,
nemici
atterriti,
la spada del
verbo,
la ruota
dentata
con te
minacciata.
Vai senza
aspirare,
fuma
tossendo,
precludi un
assedio,
tranquilla,
l’aurora è vicina,
già vedo
venere e luce
dell’angelo
ribelle,
già vedo il
fuoco
e la
maledizione, il grifone
che rode la
bile,
incessante
il dolore,
ciclico il
riapparire
con fasti
dionisiaci,
con mandrie
gelate,
o dissi
offuscate,
il frutto e
la conoscenza,
cioè
consapevolezza
e libera
scelta.
Poi il
brivido dorsale,
certo ci
vuole,
e ti affanni
a rinsavire,
vorresti
trovar la formuletta
anche per
questa sconfitta
benedetta,
(e sto parlando
di me,
ricorda,
mia
simbolica alma concreta
riflessa)
allora tu ti
alzi austera,
aspetti i
canti di gloria,
le sonate
del furore popolare,
dell’arca
trainata,
tale sembra
il tuo
perverso
sortire.
E mugugni
trasognando
nel vuoto
della stanza,
la radio a
mille,
a mille il
cuore,
lo tracci un
sorriso,
cominci ad
inveire,
a spegnere
il verdetto di fuoco
coll’umore
del corpo,
ti arresti
improvvisa,
la pelle che
freme,
la luce che
accenna,
spegni la
lampada,
scaldi le
gambe col fiato,
slanciata in
avanti
coi muscoli
tesi,
gli
occhietti furbetti,
la piazza in
fermento,
l’odore di
polvere e vento.
|